GLI STEREOTIPI

La stereotipizzazione rappresenta la seconda fase del processo sociale, detto stigmatizzazione, attraverso il quale un individuo o un gruppo vengono considerati “devianti”; è l’autore Goffman che utilizza il concetto di stigma (ovvero marchio) per identificare una caratteristica reputata negativa e attribuita a qualcuno, fino a considerarlo propriamente “deviante” e a procedere con punizioni o isolamento.

Nella prima fase, detta “etichettamento”, vengono scelti alcuni attributi, solitamente reputati socialmente importanti (come ad esempio il colore della pelle); nella seconda fase, la “stereotipizzazione”, all’attributo prescelto vengono collegati stereotipi negativi; la terza fase consiste nella “separazione”, ovvero si distinguono un “noi” e un “loro”; infine, l’ultima fase è la “discriminazione”: il gruppo viene isolato e vive una situazione di svantaggio.

 

L’etimologia della parola “stereotipo” è da ricondurre al greco antico: “stereos” significa “duro” e “typos” vuol dire “impronta/impressione”. Quindi il termine “stéréotype” può essere tradotto in “idea fissa/dura/immutabile”. Uno stereotipo è una generalizzazione esagerata o distorta o infondata che non ammette la specificità individuale e che riguarda gruppi di persone nel loro insieme.

 

È quindi sulla base degli stereotipi che si fondano i pregiudizi, ovvero atteggiamenti e credenze negativi che le persone coltivano nei confronti di individui o gruppi, fino ad arrivare alla discriminazione vera e propria che, in casi estremi, porta alla xenofobia (paura e odio per chi è diverso da noi) e al genocidio (eliminazione sistematica di un’intera popolazione).

 

Il genere è una costruzione sociale, e non sempre coincide col dato biologico (sesso); il genere identifica le qualità distintive dell’essere “maschio” e “femmina” e i ruoli di genere (ovvero l’insieme delle aspettative che riguardano il comportamento e gli atteggiamenti fondati sul sesso di una persona) sono perpetuati costantemente, come sostengono West e Zimmerman, attraverso il processo di costruzione dell’identità di genere, ovvero tramite le interazioni sociali.

Gli antropologi hanno dimostrato che, ad esempio, la divisione sessuale del lavoro è un universale culturale, cioè che esiste in tutte le società studiate: certi compiti, in alcune società, sono considerati propri degli uomini, in altre vengono ritenuti appropriati per le donne. Le teorie che spiegano questa divisione del lavoro tengono in considerazione, ad esempio, fattori quali la forza fisica degli uomini e la cura dei figli che spetta alle donne.

Ritroviamo stereotipi anche per quanto riguarda i popoli: innanzitutto occorre differenziare i concetti di razza (legati a caratteristiche fisiche, come ad esempio il colore della pelle) e di etnia (legati ad un’origine e ad una patria comuni); in entrambi i casi bisogna tenere in considerazione che si tratta di due concetti costruiti culturalmente, senza alcun fondamento biologico.

Spesso a questi concetti si collegano i termini di maggioranza e minoranza: il gruppo maggioritario (riconosciuto in base a determinate caratteristiche etniche e/o razziali) è il gruppo di persone che ha maggiore potere e privilegi, mentre il gruppo minoritario, viceversa, è quello che vive più svantaggi.

 

La ricerca sociologica non studia le culture in modo valutativo, ma semplicemente registra quelle che sono le differenze presenti: uno dei primi ad occuparsi di questa analisi è stato Montesquieu, di cui si ricorda l’opera “Le lettere persiane”; egli, dopo aver descritto le diversità culturali, esprime il concetto per il quale non esiste una cultura migliore delle altre, parla di relatività dei sistemi sociali, dei costumi delle collettività umane. Il punto è quindi l’osservare la varietà delle istituzioni umane e provare a spiegarla.

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